Fu nel 1961 che l’attore e produttore cinematografico statunitense Kirk Douglas ricevette la bozza di “ONE FLEW ON THE CUCKOO’S NEST” di Ken Kesey, QUALCUNO VOLÒ SUL NIDO DEL CUCULO, un romanzo drammatico che affrontava il tema del mal-trattamento dei pazienti negli istituti psichiatrici e che venne pubblicato l’anno successivo.
Rimastone folgorato, Douglas ne acquistò i diritti per ricavarne un’opera teatrale con un cast di eccellenza.
Malgrado l’ambizione della iniziativa, la riduzione teatrale del romanzo fu un fiasco e suscitò persino una forte avversione perché, a causa del tema oltremodo sensibile, fu equivocata pensando che vi si prendessero in giro i “malati di mente”. Douglas credeva a tal punto nella bontà del progetto da essere disposto a sacrificare parte del suo compenso per non dovervi rinunciare, ma la rappresentazione fu ugualmente interrotta dopo solo sei mesi, perché gli attori non erano disposti a sacrificarsi altrettanto.
Poi accadde una fatto. Recatosi a Praga quando era ancora sotto il regime comunista, Douglas vi conobbe il giovane regista Milos Forman. Colpito dal suo talento, gli propose di spedirgli un libro, appunto “One Flew On The Cuckoo’s Nest”, perché lui provasse a trarne un film. Forman accettò, ma quel libro non gli arrivò mai.
Dieci anni dopo, quando da tempo Forman viveva in America, ricevette una busta dal figlio di Kirk, Michael Douglas, e dal produttore Saul Zaentz: all’interno c’era lo stesso libro. Disgraziatamente era accaduto che dieci anni prima l’opera fosse stata confiscata dagli addetti alla censura della dogana. Chiarito l’equivoco, Forman fu riconfermato alla regia.
Malgrado l’entusiasmo di Forman, di Zaentz e del giovane Douglas, il quale ultimo aveva oltretutto acconsentito a che le originarie disposizioni del padre circa il taglio teatrale da dare al dramma fossero accantonate a favore di un più avvincente format hollywoodiano, le maggiori case cinematografiche non vollero finanziare il progetto.
Fu così che Zaentez e Douglas decisero di girare un low budget film: niente registi costosi, che fra l’altro non ebbero il coraggio di dirigere un film tanto scomodo, ma solo un professionista “rispettabile”, Milos Forman appunto, che anzi aveva già le idee chiare su come il film andasse girato.
Secondo lui doveva trattarsi di un film realistico, e questa fu la prima carta vincente.
Per Forman, “One Flew On The Cuckoo’s Nest” era pura cronaca; gli pareva infatti che non vi si descrivesse altro se non il clima di repressione che aveva respirato per oltre vent’anni nell’Europa comunista. Per di più, entrambi i suoi genitori erano morti nei campi di sterminio nazisti perché dissidenti e il piccolo Milos, cresciuto dagli zii, aveva cominciato ad appassionarsi già ad undici anni ai film di Charlie Chaplin, Buster Keaton e John Ford. Sarebbe stato per lui naturale, trasferitosi in America dopo la primavera di Praga del ‘68, coniugare il cinema concettuale europeo con la spettacolarità di Hollywood. Semplicemente, Milos Forman era il regista giusto al posto giusto.
Fu Bo Goldman, scelto dall’agente di Forman, a scrivere il copione. Per quanto fosse uno sceneggiatore capace benché non certo di grido, accasato temporaneamente assieme a sei figli e alla moglie che sbarcava il lunario come pescivendola, anch’egli era convinto di essere stato scelto perché di poche pretese, come d’altronde Zaentz, Forman e tutti gli altri: nessuno lì poteva gloriarsi del proprio salario. Si parlava di un compenso di ottocento dollari e poi, dopo quella felice parentesi ad Hollywood, Goldman probabilmente se ne sarebbe tornato a fare il casalingo.
La sua prima idea fu quella che il protagonista McMurphy, nel colmo dell’entusiasmo per essergli state tolte le manette, baciasse di slancio una delle guardie. In questo modo il personaggio veniva presentato come un uomo impulsivo che si gode la vita con entusiasmo, fuori dai ruoli, dalle convenzioni e dalle regole. Fuori controllo ma certamente non fuori di senno; non proprio un “matto”, ma comunque un tipo “pericoloso”, come i clinici lo inquadreranno, uno che va fatto fuori.
Fu con questa brillante intuizione che Goldman convinse tutti.
Si cominciò a discutere su chi avrebbe potuto interpretare Randle Patrick McMurphy. Si pensò a Gene Hackman, poi a Marlon Bando e a Burt Reynolds, preferito da Forman, i quali però rifiutarono tutti.
La scelta cadde per esclusione su Jack Nicholson, che trovò subito tutti d’accordo per la sua interpretazione in “The Last Detail” del 1973, L’Ultima Corvé, di Hal Ashby. Era il primo film in cui si apprezzava la tempra di Nicholson come attore: sul set era solito spingere al loro limite i colleghi perché potesse dare il meglio di sé pure lui.
Nicholson era un trascinatore scanzonato, un provocatore irritante ma arguto e sensibile, un goliardico e impetuoso Peter Pan che chiunque avrebbe amato avere in gioventù come compagno di scorribande. Jack Nicholson era il McMurphy perfetto.
Nicholson era un trascinatore scanzonato, un provocatore irritante ma arguto e sensibile, un goliardico e impetuoso Peter Pan che chiunque avrebbe amato avere in gioventù come compagno di scorribande. Jack Nicholson era il McMurphy perfetto.
Per quanto riguardava la Grande Infermiera, così chiamata nel libro, tutti erano d’accordo che l’attrice dovesse interpretare, a detta di Forman, la “personificazione stessa del male”. Furono proposte Annie Bancroft, Collen Dewhurst, Geraldine Page, Angela Lansbury, ma rifiutarono tutte. Poi Forman incontrò Louise Fletcher e, giocando di astuzia, le fece ambire la parte semplicemente dicendole che non era fatta per lei.
Forman pensò che il male operato dal personaggio di Mildred Ratched non dovesse essere intenzionale, ma che l’Infermiera dovesse esserne piuttosto un veicolo inconsapevole, senza cioè sapere di essere malvagia. Lei crede davvero di essere nel giusto e di fare il proprio dovere, per una forma di idiozia della morale che vediamo espressa da taluni criminali nazisti che “eseguivano solo gli ordini”, a detta loro, caso emblematico il “contabile dello sterminio” Adolf Eichmann.
Forman pensò che il male operato dal personaggio di Mildred Ratched non dovesse essere intenzionale, ma che l’Infermiera dovesse esserne piuttosto un veicolo inconsapevole, senza cioè sapere di essere malvagia. Lei crede davvero di essere nel giusto e di fare il proprio dovere, per una forma di idiozia della morale che vediamo espressa da taluni criminali nazisti che “eseguivano solo gli ordini”, a detta loro, caso emblematico il “contabile dello sterminio” Adolf Eichmann.
Scegliere chi avrebbe interpretato il Grande Capo fu un vero incubo. Come descritto nel libro, l’Indiano doveva essere “grosso come il tronco di un albero”, ma gli Indiani non sono per lo più di costituzione massiccia. Fu per puro caso che Michael Douglas, conosciuto in un viaggio in aereo un rivenditore di auto che trattava i suoi affari con i Nativi, per suo tramite si imbatté nella mole impressionante degli oltre cento chili per due metri di altezza di Will Sampson.
Douglas si chiese se fosse stato bravo a recitare, ma Forman decise che sarebbe stato meglio se il personaggio non avesse punto parlato, secondo quanto si usa dire: “fare l’indiano”. Grande Capo avrebbe dovuto infatti rappresentare il testimone silenzioso della tragedia, l’angelo custode che alfine avrebbe assolto il terribile compito di liberare lo spirito dell’amico McMurphy dall’ultima prigione di un cervello lobotomizzato.
È con questo atto sacrificale che il film in chiusura si schiude in quella che è a mio parere una altissima e inequivocabile visione spirituale della tragedia che si è consumata.
Forman decise che l’istituto psichiatrico fosse popolato solo da volti anonimi. Era giusto che nel cast ci fosse una star, Jack Nicholson, nel quale ci si potesse identificare per poter entrare così, nei suoi panni, in un mondo di gente assolutamente sconosciuta, estranea, di fatto aliena: nel mondo cioè della alienazione mentale. Solo Danny de Vito, difficilmente riconoscibile nel ruolo del ricoverato Martini, era un attore conosciuto, mentre Christopher Lloyd (Taber), Vincent Schiavelli (Fredrickson) e tutti gli altri erano caratteristi poco noti al largo pubblico.
Forman li faceva improvvisare provando le battute poco prima, lui facendo la parte della diabolica Infermiera. Era letteralmente ossessionato dal voler cogliere gli “istanti reali”, come lui li chiamava, motivo per cui molte scene venivano riprese all’insaputa degli attori. Nessuno sapeva mai quando si era in scena, cosicché lo si era sempre, questo perché emergesse il genere di persona che ciascuno sarebbe stato “da matto”, e ciò non doveva apparire affatto una finzione. «Devi essere spontaneo», continuava a ripetere Forman.
Forman li faceva improvvisare provando le battute poco prima, lui facendo la parte della diabolica Infermiera. Era letteralmente ossessionato dal voler cogliere gli “istanti reali”, come lui li chiamava, motivo per cui molte scene venivano riprese all’insaputa degli attori. Nessuno sapeva mai quando si era in scena, cosicché lo si era sempre, questo perché emergesse il genere di persona che ciascuno sarebbe stato “da matto”, e ciò non doveva apparire affatto una finzione. «Devi essere spontaneo», continuava a ripetere Forman.
Il primario dell’istituto psichiatrico, il dottor Spivey, era Dean Brooks, conosciuto da Douglas assieme a Zaentz al loro quinto tentativo di ricerca di un nosocomio dove girare il film, piuttosto che nella ricostruzione in uno studio di Hollywood.
Per colmo di realismo, il dottor Brooks era effettivamente il direttore del manicomio prescelto, l’Ospedale Pubblico dell’Oregon, a onor del vero uno dei pochi specialisti di settore che avesse letto il libro. Questa location, subito presentata nel film dopo la tradotta in auto di McMurphy dal penitenziario all’ospedale, trasmette una atmosfera impressionante di isolamento e di inappartenenza, con la sua recinzione spinata, il corridoio squallido, le stanze anonime (fatta eccezione per lo studiolo del primario), l’infermeria separata dal salone da una grande vetrata stile acquario, gli intonaci grettati e infine l’assurdo gigantesco scaldacqua dell’idroterapia, l’attrezzo risolutore che servirà da ariete per la fuga.
Gli attori erano ospitati in un’ala dell’istituto, di modo che potessero rendersi conto di cosa significasse davvero vivere da internati in un manicomio. Mangiavano in mensa e, nella sala grande, avevano un flipper, un biliardo e il ping-pong.
Ognuno aveva nel dormitorio la sua cella, il suo lettuccio e un parco comodino con su pochi effetti personali: pettine, rasoio, spazzolino e poca altra roba oltretutto non di proprietà, perché fornita dalla produzione ammucchiata in uno scatolone. La privazione di oggetti e di abbigliamento personale contribuiva, come descrissero il filosofo Michel Foucault e il neuropsichiatra Franco Basaglia, al meccanismo di istituzionalizzazione del cosiddetto malato mentale il quale, non avendo nulla di suo (e a molti venivano anche rasati i capelli), di fatto non era nulla e quindi, svuotato della sua individualità, finiva con l’essere un numero perfettamente inquadrabile, un ingranaggio del sistema.
Per Forman era fondamentale che gli attori fossero incessantemente calati nel loro personaggio e il dott. Brooks li fece anche partecipare a delle vere sedute di gruppo. Il risultato fu che dopo pochi giorni erano tutti così compenetrati nel ruolo che chiunque fosse entrato lì dentro avrebbe avuto serie difficoltà a distinguere attori e pazienti. Si disponevano in fila per prendere il pasto, camminavano nel corridoio rasenti il muro e un giorno Danny De Vito si recò persino dallo psichiatra Dean Brooks, che ricordiamo interpretava se stesso, per chiedergli una consulenza.
A causa del grande senso di solitudine nell’istituto, era arrivato a parlare con un amico immaginario e chiese al dottore se ciò fosse preoccupante. Brooks gli rispose semplicemente che, fintanto che sapeva che l’amico non era reale, non c’era nulla da temere perché anche i bambini avevano un amico di fantasia.
Aneddoti a parte, alla fine si respirava nel cast un’aria di profondo rispetto e di umiltà: nessuno si sarebbe potuto credere migliore degli altri.
L’Infermiera miss Ratched doveva essere invece un personaggio a sé, in quanto unico vero cardine dello staff.
Sorta di sacerdotessa matriarcale in un reparto esclusivamente popolato da maschi (fatta eccezione per l’infermierina devotamente al suo seguito e per la matronale sorvegliante notturna), nel suo inamidato camice bianco doveva trasmettere un mix di aggressività passiva, di erotismo frigido e di potere castrante tale da tenere sotto scopa tutti, medici e primario compresi.
Miss Ratched è sostanzialmente un tipo di donna sessualmente repressa, una persona artefatta che ritiene di fare il proprio dovere esercitando sugli uomini un dominio spietato. Crede di fare il bene ma pratica il male assoluto che è nella sua natura inconscia. Se solo fosse in grado di provare piacere, ma non lo è, la si direbbe una sadica.
La sua faccia di plastica arrossisce solo quando McMurphy, prendendo parte a una seduta di gruppo, in una situazione pubblica dunque, la chiama “Mildred”. Era questo il nome che Louise Fletcher aveva dato a Jack Nicholson quando lui le aveva chiesto come si chiamava, burlandosi del collega perché in realtà gli aveva dato non il suo vero nome, bensì il nome che pensava potesse avere il suo personaggio, che nel copione e nel libro ha solo il cognome. Sul set, chiamando confidenzialmente l’Infermiera col nome di Mildred, Nicholson restituisce alla Fletcher lo scherzo e, sotto la maschera del personaggio, è quindi l’attrice che arrossisce veramente per l’imbarazzo.
È una improvvisazione geniale con la quale Nicholson smaschera nella Infermiera il lato femminile nascosto, rincarando poi la dose a suon di battute sconce, femminilità che nel personaggio non può che essere genuina appunto perché appartiene alla interprete.
La stessa espressione di ghiaccio si fenderà in un sorriso trattenuto nella scena in cui McMurphy torna dall’elettroshock fingendosi cerebroleso.
L’Infermiera sa benissimo, per esperienza, che si tratta di una burla, ma è ancora l’attrice a non sapersi trattenere dal ridere e tosto distoglie lo sguardo dalla scenetta, reprimendo il sorriso con il dito indice sul labbro.
Da ultimo una sera, deposta allo smontare dal servizio l’armatura professionale a favore di un pur sempre castigato abito borghese, la vediamo sorridere lusingata all’indirizzo di McMurphy che la saluta ammiccante. E infatti la Fletcher avrebbe confessato che si sarebbe spogliata volentieri del costume di scena di fronte ai colleghi per gridare al loro indirizzo: «guardate, non sono “quel” mostro, sono una donna!».
Sono questi gli unici istanti in cui traspare in miss Ratched un pizzico di umanità. Per il resto, ella rimane ossessivamente immedesimata nella sua professione e non solidarizza con nessuno, nemmeno con i colleghi di lavoro che pure, come d’altronde ciascuno nell’ambito della propria categoria - di internati, medici o infermieri - pare ben integrato.
Nello scenario dell’alienazione mentale del reparto psichiatrico, questa dark lady è l’unico soggetto effettivamente alienato, sia nel senso marxista che in quello psicopatologico del termine: una finta-sana.
Al contrario, McMurphy è il finto-matto. Lui istintivamente deve avere compreso che, dal momento in cui si nasce, ci raccomandano di entrare a far parte del sistema; ma noi siamo ciò che siamo solo quando scegliamo chi essere e, se questo ci viene negato, allora non ci resta che essere degli ingranaggi, o dei matti. L’una alienata all’interno del sistema, l’altro un outsider chiamatosi fuori, se miss Ratched è l’ingranaggio, McMurphy deve allora passare per matto. Ecco perché viene spedito dal carcere al manicomio.
Il rissoso e carnale McMurphy è invece una specie di selvaggio che rifiuta di ingranarsi nel sistema, come lo furono gli Indiani d’America: dei nomadi irriducibili alla cultura stanziale dei bianchi che consideravano pazzi perché bramavano possedere la terra anziché percorrerla liberi.
È per questa affinità che McMurphy da subito solidarizza con Grande Capo. Potrebbe anche lui essere uno spirito libero se la paura di fare la fine di suo padre, un indiano come tanti addomesticato dall’alcol dell’uomo bianco, non lo avesse spinto a fingersi un sordomuto ritardato per trovare rifugio in un manicomio. Fa così tanta paura la libertà?
Evidentemente sì, se l’establishment arriva a lobotomizzare McMurphy solo perché non si piega. Se prova a sollevare lo scaldacqua che dovrebbe servire per sfondare la finestra e scappare, ma non ci riesce, egli conclude: «almeno io ci ho provato»; se l’Infermiera gli spenge il televisore, lui fa finta di guardare il campionato lo stesso. In questo modo dimostra che se una cosa appare impossibile oppure ti viene negata, fintanto che la si può volere o immaginare si è liberi, perché è libero il pensiero. È questa libertà incondizionata che fa paura: se incoercibile, va estirpata dalla società o dal cervello come un dente marcio; se contagiosa, è bene che susciti scandalo.
In McMurphy tutto è trasgressivo: la sua scapigliatura, la sua virilità, la sua anarchia. Ma allo stesso tempo egli suscita attrazione perché trasuda voglia di vivere. Gli altri internati fiutano questo afrore, loro così passivi e in pantofole, e si servono di lui per agitare le acque.
Troppo tardi McMurphy scoprirà di essere stato giocato: gran parte dei ricoverati stanno lì dentro solo a titolo volontario, potrebbero andarsene in ogni momento, ma hanno scelto di rimanere.
Non vogliono arrischiarsi ad essere liberi, ma hanno comunque bisogno di un diversivo per poi, quando chi si è esposto è stato martirizzato, subito rientrare nei ranghi per farne un mito, o forse un monito che è preferibile vivere in manicomio da matti, piuttosto che morire fuori da uomini liberi.
Cosa ci testimonia allora McMurphy nel film e, prima ancora, che cosa significa il titolo? Il “cuculo” nel gergo yankee noi lo tradurremmo con “picchiatello”, quindi il “nido del cuculo” è il manicomio. Soltanto che il cuculo è un uccello che non nidifica, bensì depone un singolo uovo nel nido degli altri uccelli. Poi, siccome quest’uovo si schiude prima degli altri, il piccolo cuculo si affretta, appena uscito, a sbattere fuori dal nido le uova con dentro i “fratelli”. Essendo troppo grosso, infatti, ha bisogno di tutto il cibo che i genitori adottivi, per istinto, continueranno a portargli.
McMurphy è appunto il cuculo che spinge a forza gli altri fuori dal nido nosocomiale benché questi non siano pronti, e non lo saranno mai, perché non sono affatto convinti. È questo l’inganno in cui cade il povero illuso: loro non intendono volarsene via e il suo risulta essere quindi uno sforzo vano, la presunzione ingenua di chi vuol cambiare chi non vuole cambiare.
McMurphy è quindi l’eroe ellenico che pecca di “hybris”, ovverosia di superbia, perché sfida lo strapotere del “fato”, il sistema, con la pretesa di cambiare le cose in nome di un ideale in cui lui solo crede, mentre la maggioranza ne è solo temporaneamente inebriata.
Alla fine, o l’eroe vince il sistema e diviene un tiranno, perché nauseato dalla indolenza della massa pigra e mediocre, o il sistema sopprime l’eroe, come nel nostro caso, poi facendone un martire. L’ipostatizzazione della vittima che ha appena sacrificato è la manovra definitiva con la quale il sistema castra subdolamente ogni altra velleità libertaria: l’eroe viene portato a esempio di quello che sarebbe bello poter essere o fare, sempre che - ecco il doppio messaggio - ciò non fosse troppo pericoloso. Questo perché il vero potere è nella persuasione: il sistema non si espone a vietare, se è sufficiente dissuadere.
McMurphy è il capro espiatorio che si presta al martirio: ricordiamo che preferisce rimandare la sua fuga finché non è troppo tardi, solo per consentire al giovane Billy Bibit di diventare uomo tra le braccia di una “signorina” introdotta di notte per fare baldoria. Ma perché si sacrifica?
Per certi aspetti McMurphy potrebbe simboleggiare Gesù: la promessa della liberazione, la scena apostolica della pesca in barca, il party notturno come ultima cena, Billy Bibit che è il Giuda che lo tradirà, la lobotomia come morte cerebrale, il pesante scaldacqua strappato da terra come la pietra del sepolcro di Cristo, con lo spruzzo d’acqua che richiama il fonte battesimale e, infine, la resurrezione di McMurphy che Grande Capo porta via spiritualmente con sé.
La risposta a perché si sacrifica, è quindi semplicemente che McMurphy è un uomo in fondo di principio, un uomo buono. E sono spesso i buoni, per puro senso di responsabilità, a doversi spendere per tutti.
«Nell’ultima scena con il Grande Capo e McMurphy, ricordo che Saul (Zaentz) disse: “penso che lui debba abbracciare McMurphy”. Temevo che fosse troppo sentimentale, ma alla fine scrissi nel copione: “e poi abbraccia McMurphy” e pensavo: “è perfetto, è perfetto!” - racconta Bo Goldman in una intervista.
«Cosa avrebbe detto Grande Capo? Quale sarebbe stata la sua ultima battuta? Non lo sapevo. Milos (Forman) mi chiese: “secondo te cosa dovrebbe dire?” e io risposi “let’s go”. Milos disse “è perfetto: andiamo”. La battuta racchiudeva in sé l’intera storia, e il fatto che uno dei due fosse morto non cambiava nulla.
«Penso che quando una storia è bella, non possano esserci cambiamenti, non ci sono alternative, viene in quel modo. E se alla fine della storia un uomo ha vissuto in maniera onesta, non importa ciò che perde, perché ne esce intatto. Questo ha fatto McMurphy: ha scritto bene il copione della sua vita. Grande Capo questo lo capisce, e lo libera.
«“Lets’go”: la miglior battuta che io abbia mai scritto».
Cinque oscar nel 1975: migliore film, migliore regista, migliore attore, migliore attrice e migliore sceneggiatura non originale. Nel 1993 è stato scelto per la conservazione nel National Film Registry della Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti e per concludere, nel 1998, l’American Film Institute l’ha inserito al ventesimo posto nella classifica dei migliori cento film statunitensi di tutti i tempi.
Un benedetto capolavoro di film, venuto alla luce praticamente per caso; oppure forse esiste un destino, o una qualche Provvidenza, chissà.
ONE FLEW ON THE CUCKOO’S NEST, Qualcuno Volò Sul Nido Del Cuculo - regia Milos Forman, sceneggiatura Bo Goldman, produttori Michael Douglas e Saul Zantz - USA, 1975.