L’ARTE DI INVECCHIARE - Prossimo oramai ai suoi novanta anni, Clint Eastwood (San Francisco, 31 maggio 1930) ci sta impartendo una grande lezione di vita. Quale? In una società dove pare si debba essere per forza ricchi, giovani e belli, lui ci dimostra che può esservi valore, e merito, anche nell’essere anziani.
Anzi: “soprattutto” quando si è vecchi, visto e considerato che il suo talento di attore ci ha guadagnato con la stagionatura quanto il vino di annata e, come regista, è persino migliore [tra i migliori, a mio avviso!].
Bella forza ad avere successo – direte voi – lui è comunque ricco e bello! Cerchiamo però di essere più obbiettivi e meno invidiosi: Eastwood non ha successo [come certuni] perché è ricco, ma è ricco perché ha successo; i soldi non li ha insomma rubati e ci sono tante “persone belle” che non sono altrettanto “belle persone”, cioè la loro bellezza è vuota, non ci fanno nulla di buono, non comunica alcunché e rimane sterile, cioè fine a se stessa. [Né riescono, costoro, ad accettare di imbruttire con la vecchiaia, la negano e ne cancellano ostinatamente le tracce a qualsiasi prezzo, anche a costo del ridicolo].
Se leggete la sua biografia su Wikipedia, scoprirete inoltre che Eastwood non è stato affatto un personaggio buono. La sua vita è stata sì piena, ma piena anche di donne lasciate e riprese, nonché di tanti figli avuti con mogli diverse e giocoforza male, se non per nulla accuditi. Sempre implacabilmente teso al bersaglio del suo ego accentratore, questa scheggia umana ha seminato parecchie vittime trovatesi, incaute, sulla sua traiettoria. Certamente la sua è stata la vita di un narcisista.
Eppure, giunto all’epilogo della sua esistenza, con i personaggi che interpreta ad esempio in “Million Dollar Baby” [il mio preferito], l’allegorico “Gran Torino” e infine “Il Corriere” (“The Mule”, 2018, l’ultimo capolavoro), sorprendentemente ci testimonia che persino alla fine si può cambiare, ammettendo con coerenza le proprie colpe e riscattandosi con un atto estremo di coraggio.
Non a caso, i protagonisti di questi tre film non sono che vecchi scontrosi, addirittura rabbiosi o rispettivamente spaesati, meritatamente abbandonati perché abbandonanti. Dei vecchi incarogniti che si sono abbondantemente guadagnata la propria solitudine da più giovani e nei quali non è difficile riconoscere il nostro Clint, macho e maschilista. Infatti, in questo ultimo film, più volte il protagonista Earl Stone ammette di essere stato un uomo lontano dalla famiglia, con la scusa del lavoro, e ribadisce il valore di questa, anche se tardivamente, sopra ogni altra cosa.
Eppure all’ultimo avviene il riscatto: Earl diventa un corriere della droga (anzi, il corriere più efficiente) proprio per risollevare le sorti economiche della famiglia che abbandonò. Con questa deriva criminosa a fin di bene lui, da sempre stato un uomo lavoratore e onesto sì, ma solo fuori, non dentro casa, ammesse le sue colpe e mancanze, paradossalmente si riabilita. La nipote che sempre lo aveva amato (malgrado tutto) ora lo adora, la figlia lo perdona come pure la moglie: «Sei stato il mio più grande amore e il mio dolore più grande», gli dice. Questo perché Earl è un uomo probabilmente vittima di se stesso e in fondo buono [sicuramente come Eastwood], che infatti riesce a farsi voler bene anche dai delinquenti più incalliti che frequenterà.
Insomma, come in “Million Dollar Baby” e “Gran Torino”, anche in “Il Corrierre” emerge il probabile cruccio di Eastwood: il senso di COLPA per avere abbandonato i propri cari ma, alla fine, anche la possibilità di REDENZIONE [non moriva con le braccia aperte in croce il Walt Kowalsky di "Gran Torino"?]. Come a voler dire: se c’è pentimento e volontà di cambiare, e pagare, non è mai troppo tardi.
Una colpa imperdonabile perderlo!!!
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